La leggenda narra che Blackmagic Design abbia cominciato a produrre macchine per il cinema per una sorta di vendetta contro i maggiori produttori, che non avevano appoggiato la realizzazione di nuovi registratori per le loro macchine da presa. Quando abbiamo chiesto conferma di questa storia, Stuart Ashton, top manager dell’azienda, sorridendo ha negato, dicendo che in realtà tutto era probabilmente nato dall’acquisizione di DaVinci Resolve, che aveva portato in azienda un know how enorme sul processo delle immagini, che andava a completare quello già maturato sui recorder HDMI ed SDI.
In ogni caso, poco tempo dopo l’integrazione di DaVinci, Blackmagic inizia la sua avventura nel mondo delle cinema camera, con il primo modello, la 2.5K, innovativa per forme e contenuti tecnici e con un costo estremamente ridotto.
Il form factor era essenzialmente quello di un monitor con uno spessore leggermente superiore alla media per alloggiare anche un sensore micro 4/3, l’elettronica ed una grande batteria interna non rimovibile. L’apparecchio aveva tasti e comandi fisici ridotti al minimo con interazione quasi tutta delegata al touch screen. La caratteristica tecnica di spicco era la registrazione in RAW sul supporto più economico e veloce sul mercato adatto allo scopo, un SSD standard da 2,5”, in un periodo in cui i concorrenti diretti utilizzavano supporti proprietari ed estremamente costosi.
Il successo fu subito notevole, o quantomeno superiore alle attese, ed i tempi necessari per avere una macchina dopo averla ordinata erano dell’ordine dei mesi. Prassi un po’ fastidiosa (eufemismo) anche per i modelli successivi, per i quali a volte i tempi di consegna arrivavano anche ad un anno…
Il primo cambio di rotta, tutto sommato, è avvenuto con la macchina in prova oggi. Presentata a sorpresa a febbraio 2017, al di fuori dalle fiere di settore, la Ursa Mini Pro era immediatamente disponibile per le consegne. Un modello ‘della svolta’ anche per un altro motivo. Sino a quel momento le camere Blackmagic si erano distinte per ottime caratteristiche tecniche (e alcune lacune), ma soprattutto per il costo enormemente contenuto rispetto alla media. La Ursa Mini Pro, invece, ha raccolto molte delle osservazioni e dei suggerimenti ‘del popolo’, ed offre tanti plus, a partire dai filtri ND integrati e dagli slot per card SD, ma ha un costo allineato all’agguerrita concorrenza dei marchi giapponesi…
Cinema o Broadcast?
Già ad un esame visivo è evidente che Blackmagic con questo modello ha voluto esplorare un settore nuovo per l’azienda, quello del broadcast. Dopo aver utilizzato per i primi modelli un corpo atipico, la Ursa Mini Pro ha una conformazione base molto raccolta, non molto diversa da altre macchine per il cinema, come la Panasonic EVA1 che abbiamo provato recentemente.
Tuttavia, pescando tra le numerose opzioni, e grazie anche anche al tipo ed alla disposizione dei tasti e comandi fisici posti sul lato sinistro, la Mini Pro trasforma il suo aspetto e la sua ergonomia in quelli di una una tipica camera ENG.
Le parti opzionali necessarie sono essenzialmente il viewfinder e lo Shoulder Mount Kit, che include la maniglia superiore, il supporto imbottito per appoggiare la camera sulla spalla, ed una staffa per montare la maniglia destra in posizione più avanzata. Per completare la metamorfosi si può acquistare anche l’adattatore che permette di utilizzare le ottiche broadcast B4 da 2/3”.
Intercomtransformer
Questa non è l’unica trasformazione possibile; anche senza acquistare altre opzioni, può venir fuori la terza anima del camcorder, la camera da studio professionale. Integrando URSA Mini Pro nell’ecosistema Blackmagic, ossia collegandola ad un mixer ed altre periferiche che supportano l’SDI “arricchito”, vengono supportate una serie di funzioni aggiuntive. Tra queste segnaliamo la possibilità di controllare i parametri principali della macchina, che in genere vengono gestiti remotamente dalla regia, ossia, solo per citarne alcuni, apertura del diaframma, velocità dell’otturatore, bilanciamento del bianco, master gain e regolazione della colorimetria, ma non solo; sfruttando i canali audio 15 e 16 dell’SDI, è integrato addirittura un sistema intercom full duplex.
Il controllo remoto può essere effettuato con tre modalità principali; la prima, gratuita e più utilizzata, è il software di controllo da computer del mixer Blackmagic, che essendo multiutente, permette a più persone di lavorare simultaneamente, ciascuno occupandosi di un ruolo preciso. La seconda è il pannello fisico del mixer, che ha dei controlli dedicati alle funzioni CCU, e la terza è l’ATEM Camera Control Panel, un pannello hardware espressamente progettato per questa funzione che consente di controllare sino a 4 camere, con joystick, aspetto e funzionalità davvero broadcast. Inoltre è possibile acquistare un monitor, l’Ursa Studio Viewfinder, dotato di tutte le fattezze e funzionalità tipiche delle unità da studio di fascia alta.
A proposito di optional, per completare l’intero workflow da studio, recentemente Blackmagic ha messo in vendita due importanti accessori, il Camera Fiber Converter e lo Studio Fiber Converter. Questi due convertitori, posizionati uno sulla camera e l’altro in regia o sala macchine, consentono la connessione tramite un solo cavo in fibra SMPTE tra i due lati, con video di andata e ritorno, intercom, dati seriali per il controllo di teste remotate con lo standard VISCA. L’unico cavo fornisce alla camera anche l’alimentazione a 200v. Tutto ciò in sicurezza e fino ad una distanza massima di due chilometri.
Dotazione all’altezza
Il sensore utilizzato nella macchina è un CMOS 4.6K di dimensioni generose, (25,3×14,2mm), che superano leggermente il Super35, dotato di una risoluzione reale di 4608×2592 pixel. Non è dotato di funzionalità dual ISO e la base è fissata ad 800. La gamma dinamica dichiarata raggiunge il notevole valore di 15 stop.
Il sensore supporta il windowing, cioè è possibile sfruttare una porzione inferiore per ottenere velocità massime di ripresa maggiori, scendendo però a patti con la riduzione dell’angolo di inquadratura.
Nonostante la risoluzione possa spingersi ben oltre il 4K, il sistema è in grado di riprendere ad alta velocità per effettuare slowmotion estremamente fluidi. In 4.6K si va sino a 60p, in Full HD sino a 120p.
La flangia di montaggio standard per le ottiche è la Canon EF, ma sono disponibili varie alternative a prezzi accessibili; cambiare è semplice e può farlo anche l’utilizzatore senza recarsi in un centro specializzato. Oltre alla già citata B4 per ottiche da 2/3”, che limita la risoluzione al Full HD, sono disponibili la flangia per il formato Arri PL, dotata del protocollo i/Tecnology di Cooke che permette di comunicare alla camera le informazioni sull’ottica da inserire nei metadati, e l’F-mount per le ottiche Nikon.
Per l’alimentazione, sulla camera c’è un connettore XLR a 4 poli, ma è possibile installare una piastra per batterie V-Lock o Gold Mount. Per la nostra prova abbiamo usato una V-Lock da 90W, che ha garantito una durata adeguata in tutte le sessioni di shooting.
Le connessioni video includono un ingresso video 12G SDI per il ritorno dalla regia, e due uscite 12G SDI. Curiosamente non è presente un’uscita HDMI.
La macchina è dotata di una porta USB Type C, che attualmente non consente lo scambio di dati con computer, ma serve solo per aggiornare il firmware. Le porte LanC per il controllo remoto di obiettivo e registrazione sono due; ad una di queste si collega la maniglia removibile. Ingresso di reference e timecode condividono lo stesso connettore BNC.
La sezione audio prevede un microfono stereo integrato e due ingressi XLR con controlli fisici posti sulla parte esterna del monitor. Non manca la possibilità di fornire l’alimentazione phantom +48V per i microfoni a condensatore.
La camera è dotata di una presa cuffie da 3.5mm compatibile anche con microfono iPhone per poter parlare con la regia, attraverso il sistema intercom integrato.
La sezione relativa alla registrazione è molto completa. In camera sono previsti già quattro slot per schede di memoria; due per CFast, necessarie per la registrazione Raw al massimo della qualità, e due per SD card. Un interruttore permette all’utente di sfruttare gli uni o gli altri. I formati di registrazione disponibili sono numerosi e di altissima qualità. La camera registra in Raw nel formato CinemaDNG con diversi livelli di compressione, ma è in grado di registrare anche in Apple ProRes e in tutte le sue declinazioni, 4444, XQ, HQ, LT, Proxy, etc, ma purtroppo non nel neonato ProRes Raw, e non è presente un codec long gop H264 per poter registrare ad un basso bit rate. Con una piccola spesa si può aggiungere alla camera l’URSA Mini SSD Recorder, che fornisce un quinto slot per un disco SSD da 2,5”: garantisce altissima velocità, grande capienza e bassissimi costi per GB, e permette, una volta collegato al computer via docking station, di fare editing e color grading senza dover copiare i file: un vero plug and play.
Metalli leggeri a go go
La costruzione del corpo camera è apprezzabile sia per la qualità dei materiali utilizzati che per la cura riservata all’assemblaggio.
La macchina base è molto compatta e leggera, come dimostra il peso appena superiore ai due chilogrammi. Sono gli accessori opzionali che possono far ingrassare, anche notevolmente, la Ursa Mini Pro. Pesano abbastanza gli elementi dello shoulder kit, sia la maniglia superiore che il supporto per le canne e per la spalla, e pesa tanto anche il viewfinder. Quest’ultimo è realizzato quasi interamente in alluminio con ottima fattura. Gli elementi ottici sono in vetro ed il pannello è un OLED di qualità. Nella parte superiore della macchina si trovano dei tasti utili e facilmente identificabili al tatto anche senza guardarli. Anche il software per lo sfruttamento delle funzioni è fatto con cura.
Il viewfinder costa circa 1400 euro, e vale tutta la cifra, ed offre una visione ottimale anche per chi indossa gli occhiali. è dotato di assistenze per il fuoco, come peaking ed ingrandimento, e si collega alla camera tramite due cavi, alimentazione ed SDI; in tal modo può essere utilizzato anche su camcorder di altri produttori.
In mancanza del viewfinder è possibile utilizzare il monitor integrato da 4”. Rispetto al passato, per la gestione della macchina sono presenti tanti tasti fisici ed il software per la gestione tramite touch è realizzato benissimo. Tutte le funzioni si attivano in maniera pratica e la risposta al tatto è perfetta. La qualità visiva del monitor è ottimale; l’unica cosa migliorabile è la limitata mobilità. Sebbene sia dotato di doppia articolazione, non si muove oltre i 180° in verticale, limitando le posizioni di ripresa.
La camera supporta il Bluetooth per la gestione, ma curiosamente non vengono fornite vere e proprie app per iOS ed Android. In compenso, nella dotazione c’è una SDK per realizzare App proprie, e viene fornito un buon esempio funzionante solo su tablet Apple iPad.
Oltre al monitor, sulla parte esterna dello sportello, è posizionato un utile e tradizionale display a cristalli liquidi che permette di vedere tutti i parametri più importanti della camera anche in pieno sole.
Il monitor è molto utile anche per l’immissione dei metadati che vanno ad arricchire i file Raw di tantissime informazioni utili alla post produzione.
Sulla camera sono presenti numerosi fori per il montaggio di rig ed accessori. Nella parte superiore un’ampia griglia permette il passaggio dell’aria che viene aspirata dalla grande e silenziosa ventola posta nella parte inferiore.
Il design è certamente riuscito, l’estetica è molto gradevole, ma la presenza delle griglie così larghe lascia però intuire una certa vulnerabilità agli agenti atmosferici ed all’ingresso di polvere e sabbia.
In caso di utilizzi in ambienti difficili sarà pertanto opportuno dotarsi di debite protezioni.
Pronti per il ciak
Ecco il momento della prova. Per motivi di spazio trascureremo un po’ l’uso per eventi dal vivo per concentrarci sull’uso cinematografico. Di default la macchina non ha supporti da spalla, solo una maniglia removibile sul lato destro con l’attacco a rosetta che consente di cambiare anche l’angolo d’innesto. Con questa configurazione l’uso è simile a quello di una DSLR o mirrorless senza mirino, ma con una massa ovviamente maggiore; la Blackmagic non pesa molto, ma già se si utilizza una batteria V-Lock da 90W ed un’ottica cinema, il peso complessivo non è più trascurabile e risulta opportuno attrezzare la Ursa Mini con lo shoulder kit, che come abbiamo già detto non è una piuma. Siamo molto lontani dal peso delle telecamere ENG di un paio di decenni fa, tuttavia lo spallaccio ha una svasatura poco profonda e quindi la camera, essendo molto corta, tende un po’ a scivolare in avanti, costringendo il braccio destro a contrastare la gravità e rendendo più impegnativo del necessario mantenere il camcorder nell’assetto giusto.
Per il resto, l’ergonomia risulta riuscita, con i tanti comandi fisici posizionati correttamente.
Tra questi spicca uno dei punti di forza di questo modello rispetto a tutte le cinema camera BMD del passato, il pomello per la regolazione dei filtri ND. Realizzati in vetro di alta qualità, con schermatura per i raggi infrarossi, permettono di utilizzare le impostazioni di apertura di diaframma e velocità di otturatore desiderate anche in presenza di forte luce per poter sempre avere il massimo bokeh. Le posizioni sono quattro, da trasparente a 1/64.
Tu’s megl che uan
C’è da aggiungere che per le nostre riprese abbiamo utilizzato due ottiche con attacco EF (con il quale ci è stata fornita la macchina) assai diverse fra loro, uno zoom cine/broadcast Cine CN-E 18-80 mm T4.4 Compact Servo, ed uno fotografico di alto livello, Sigma 15-35 mm F1,8 della serie ART.
Anche se non è questa la sede per approfondire il discorso, segnaliamo comunque per entrambi una qualità ottica e meccanica di livello superiore, cosa che ha portato risultati interessanti in tutti e due i casi.
In particolare, il Canon ha mostrato una resa equilibrata per tuttta la sua ampia gamma di focali, mentre il Sigma si è fatto preferire in alcuni ambiti, quando non era richiesta alcune funzione di teleobiettivo, per la grande luminosità, che ha ben compensato una certa inerzia della Ursa Mini Pro, diciamo così, in condizioni di scarsa luce.
E veniamo alle riprese. Uno dei punti di forza dei camcorder Blackmagic è sempre stata la disponibilità, anche su macchine economiche, della registrazione Raw. Su questo modello è possibile registrare sino a 4.6K con una profondità colore di 12bit e con compressione lossless, ovvero i dati vengono leggermente ridotti, ma senza che avvenga perdita di qualità.
Le altre opzioni possibili prevedono la compressione a 3:1 ed a 4:1. In lossless, a 4.6K a 25p, un minuto di girato occupa circa 25GB, 9GB a 3:1 e 6.7GB a 4:1. In Raw, ai vari livelli di compressione, notare differenze ad occhio nudo, senza numerosi ingrandimenti, è difficile, tutti i file hanno una qualità elevata e non si notano artefatti di compressione, anche realizzando movimenti di camera molto veloci, che in genere mettono in crisi i codec inter frame come i più diffusi H264. La stessa cosa succede utilizzando i codec ProRes, almeno quelli dal bitrate più elevato, che d’altra parte sono lossy e che comunque non garantiscono una riduzione importante dello spazio occupato. Con l’Apple ProRes 444 XQ in 4.6K a 25p, un minuto occupa 12,5GB. La differenza, a vantaggio del Raw, viene però fuori quando è necessario effettuare un color grading spinto. Nel file Raw vengono memorizzate tutte le informazioni carpite dal sensore, molte più di quelle che può notare inizialmente il nostro occhio.
Come abbiamo detto sul numero precedente di Tutto Digitale, provando la RED con il sensore Gemini 5K, si può sfruttare questa caratteristica per catturare quanta più luce possibile per cercare di minimizzare l’insorgenza del rumore, senza temere eccessivamente la sovraesposizione. Togliere luminosità comporta meno problemi che aggiungerla.
La Ursa Mini Pro si comporta benissimo con condizioni di luce ottimali. Gamma dinamica, dettagli, colori sono notevoli. Anche di notte o con luce scarsa, ma bisogna evitare che ci siano aree sottoesposte, poiché il rumore può essere in agguato.
Il sensore ha una sensibilità nativa di 800 ISO; gli altri valori che vengono impostati in camera sono puramente virtuali.
Le immagini sono caratterizzate da una bella pasta cinematografica, con una valida color science, con colori vividi, dettagli minuti resi alla perfezione, effetto bokeh estremamente appagante grazie alle dimensioni generose del sensore.
Il bilanciamento di colore e contrasto è molto gradevole anche senza applicare la LUT, lookup table, necessaria allo sviluppo corretto dei file. I problemi vengono fuori solo quando la luce è scarsa, ed anche portando gli ISO al massimo valore di 1600 ISO, non si riescono ad eliminare aree di sottoesposizione. Queste zone risultano essere ricche di rumore e falsi colori, caratterizzate da una sorta di pattern con strisce verticali che possono essere molto fastidiose da vedere.
In realtà, sebbene il rumore sia presente, generalmente scompare alla vista quando si applica la LUT per adattare lo spazio colore a quello video REC709, ma riappare ineluttabilmente se si cerca di dare anche un pizzico di gain per illuminare maggiormente la scena.
In post è possibile utilizzare la riduzione rumore, ma, al solito, come vedremo ciò comporta – inutile ricordarlo – dei pro e contro.
Il workflow Raw
Sebbene i file non siano proprietari e riconosciuti dai software di editing più diffusi, ci siamo concentrati sull’editing con il programma Blackmagic DaVinci Resolve, non solo per le sue attitudini al color grading, ma soprattutto perché acquistando una Ursa viene fornita gratuitamente una licenza completa della versione Studio, che gli utenti di altre camere devono comprare a parte.
Girando in Raw, i file generati sono CinemaDNG, ovvero per ogni ciak viene generata una cartella che contiene ogni singolo fotogramma ed un file wav separato per l’audio. Selezionando tutti i file della sequenza ed il file audio, Resolve accoppia tutto in una sola clip; affidando al programma la scansione di un intero disco o cartella, Resolve riconosce automaticamente tutti i file e genera in pochissimo tempo le clip virtuali necessarie al montaggio. Qualora si aggiungano altre cartelle contenenti file Raw, alla scansione successiva, Resolve riconosce i file che aveva già importato ed aggiunge alla bin solo i nuovi.
Il workflow per lo sviluppo dei Raw non è molto differente da quello che abbiamo visto recentemente per RED. Nella sezione camera di Resolve ci sono tutti gli elementi utili allo sviluppo ed ad un primo grading dei file. Si può impostare un singolo look per tutte le clip della timeline, adottando anche la corretta LUT, oppure si può procedere per clip, andando ad intervenire su decine di parametri. Molte delle impostazioni che adottiamo in camera, come ISO e bilanciamento del bianco, sono virtuali e quindi tutte le variazioni sono non distruttive. A differenza degli Apple Prores Raw, abbiamo dei file completi di tutte le informazioni e di tutti i metadati.
Per massimizzare la resa nelle ombre si può tranquillamente lavorare oltre il limite apparente della sovraesposizione potendo contare su margini enormi in post produzione.
Anche la gestione colore permette di effettuare grading importanti senza che appaiano artefatti o difetti.
Veniamo infine alla noise reduction. Resolve consente di applicare due stadi, temporale e spaziale. Applicando entrambi, anche ai massimi livelli di qualità, il rumore viene ridotto e smussato, ma comporta però anche la diminuzione dei dettagli.
Il sensore della Ursa Mini Pro non offre – a differenza della Production 4K – la modalità global shutter, ma offre ottime prestazioni in merito al rolling shutter. Anche esagerando con la velocità delle carrellate o dei movimenti, le deformazioni restano contenute a prova di un ottimo valore di read out che si conferma anche negli altri test, flash banding e gelatina inclusi.
Tre al prezzo di una
Dovendo riassumere, possiamo dire che questa camera è davvero dotata di tre anime, che le consentono di competere con le migliori concorrenti in tutti i settori d’uso, cinema, broadcast e studio.
Si presta quindi molto a quegli utenti che potrebbero utilizzarla in più ambiti, avendo a disposizione un budget contenuto.
Qualche limite c’è, ma quello più sensibile è certamente la resa con luce scarsa. La Mini Pro paga rispetto ad altre concorrenti più recenti l’assenza di una modalità dual ISO del sensore ed una conseguente tendenza elevata ad introdurre rumore e falsi colori nelle aree di sottoesposizione.
Il prezzo, rispetto alle caratteristiche e prestazioni offerte, tutto sommato è conveniente, ma non quanto lo sono altre camere della stessa casa, del passato e del presente. La Mini Pro costa il doppio della Mini 4K che ha un numero monore di funzioni ed un sensore meno pregiato; costa comunque molto più della URSA Mini Broadcast, assai simile ma è dotata di un sensore 4K e Mount B4 di serie.
Aspettiamo adesso nuovi sviluppi, in particolare l’attesa Pocket Cinema Camera, per vedere se Blackmagic riuscirà a continuare il suo ruolo di azienda innovatrice nel microcosmo del cinema e del broadcast.